VICO DEL GARGANO
La cittadina si trova in un punto strategico dal punto di vista geografico, posizionata a pochi chilometri dal mare e dalla Foresta Umbra. La presenza di ricche sorgenti ha favorito sin dai tempi più remoti l’insediamento dell’uomo su questo territorio, che ha visto il sorgere di numerosi siti. Le origini di Vico si perdono fra storia e leggenda, tanto che si narra di una possibile fondazione da parte di Diomede; certamente, le testimonianze archeologiche restituite ci parlano dell’esistenza di stanziamenti riferibili sino all’età neolitica. La prima menzione ufficiale e storica risale al 970 d.C. quando il capo dei mercenari slavi, insediatesi nel paese dopo aver scacciato i Saraceni dal Gargano per conto dei Bizantini, ottiene in concessione le terre liberate e ne diventa proprietario. Quest’ultimo riunisce le genti sparse entro mura provvisorie e dà origine alla primitiva “Civitas”, in seguito chiamata “Vicus” e, infine, Vico. Nei secoli successivi si susseguono numerose dominazioni, dai Normanni, agli Svevi e agli Aragonesi, che lasciarono numerose testimonianze del loro passaggio. Le tracce più antiche della frequentazione umana provengono dalla stazione preistorica di Macchia di Mare, da cui prende il nome la civiltà omonima collocabile intorno al IV-III millennio a.C., e da altre zone vicine. Oltre a livelli riferibili al Paleolitico medio-superiore, sono emersi numerosi frammenti di ceramica impressa riferibili al Neolitico tardo (stile Diana-Bellavista). I resti di animali rinvenuti indicano la presenza di una comunità dedita alla pesca, alla caccia, ma anche alla pastorizia. Di grande importanza sono le testimonianze relative all’esistenza di un abitato con capanne infossate nel terreno, con resti di battuto e di focolari che perdura fino all’Eneolitico. Molto più fitto risulta il popolamento dell’area durante l’età del Ferro e quella arcaica per opera dei Dauni, attestato specialmente dal rinvenimento di zone per uso funerario o per uso abitativo. Tra gli spazi adibiti al seppellimento dei defunti, la necropoli di Monte Tabor è certamente quella più importante finora ritrovata. Le tombe, disposte intorno al colle in cerchi concentrici ed equidistanti tra loro, sono scavate nel banco roccioso e raggiungono la profondità di circa un metro. Esse sono di forma tronco-piramidale, più larghe sul fondo, ed erano coperte da lastroni di pietra e spesso erano sormontati da monoliti o da teste di pietra. Le sepolture erano spesso plurime e i defunti erano sepolti in posizione rannicchiata su un fianco con il volto rivolto ad oriente. I corredi erano composti da ceramiche d’impasto o in argilla figulina con decorazioni dipinte a carattere geometrico (si tratta dei celebri vasi geometrici dauni) e da ornamenti metallici (soprattutto fibule di vari tipi). Non mancavano anche elementi di collana in pasta vitrea blu di produzione fenicia o in ambra (a volte figurati, come quelli della Collezione Sansone di Mattinata, provenienti proprio da questa necropoli), così come le cuspidi di lancia e di giavellotto. Tutti questi elementi hanno consentito di datare le sepolture tra l’VIII e il V secolo a.C. A nord di Monte Tabor si trova la località Coppa Mendole, importante per il ritrovamento dei resti di un villaggio di capanne (di forma ellittica o quadrangolare), riferibile al VI-V secolo a.C. Probabilmente, si tratta dell’abitato daunio, cui è legata la necropoli di Monte Tabor. I frammenti ceramici rinvenuti (ad impasto, geometrica Daunia, a vernice nera, tipo Gnathia, sigillata italica) attestano una lunga esistenza protrattasi fino alla tarda età imperiale. Ad età paleocristiana risale lo splendido complesso ipogeico di Monte Pucci, già interessato in precedenza da un abitato eneolitico e da due sepolture a grotticella della stessa fase con dromos di accesso, contenenti sepolture collettive. Sono state trovate circa ottocento sepolture a fossa o in loculi, spesso sormontati da arcosolii, insieme a qualche struttura “a baldacchino”, raccolte attorno a 25 ipogei, databili tra IV e VII secolo d.C. Tra questi spicca soprattutto l’ipogeo a pianta circolare, noto come “Grotta delle cento colonne”, caratterizzato da quattro sepolture monumentali che formano nello spazio centrale un baldacchino, e vari arcosolii a volte contenenti sino a otto sepolture. Tra i materiali rinvenuti risaltano soprattutto le lucerne fittili con varie figure a rilievo (pesci, galli, croci, volti umani), un’ampolla in vetro, braccialetti in bronzo e diversi ornamenti. La campagna di scavo condotta nel 2012 ha portato al rinvenimento di numerosi reperti di grande valore ed interesse, tra i quali si ricordano soprattutto due bottiglie in vetro celeste, un’oinochoe in vetro blu e un’anforetta in vetro beige-dorato di ottima fattura. Tra i vari ornamenti ritrovati spiccano soprattutto un anello in oro con castone in pasta vitrea blu con una scena incisa raffigurante Diomede con il Palladio, bracciali in argento terminanti con teste di serpenti, un pettine di avorio e lucerne fittili caratterizzate da diversi simboli (palma, figura umana, cinghiale ed altri soggetti).